Perché viaggiamo oggi: tra scoperta e performance

Quando Bruce Chatwin attraversava il deserto australiano per seguire le piste dei canti aborigeni, non cercava soltanto un luogo: inseguiva un’idea ancestrale di movimento come forma di conoscenza. “L’uomo è un animale migratore”, scriveva, convinto che il nomadismo non fosse un’eccezione nella storia umana, ma la regola. Oggi, a distanza di decenni da quelle intuizioni, ci ritroviamo a interrogarci ancora: perché continuiamo a partire? La risposta è molto più complessa e contraddittoria di quanto le narrazioni romantiche sul viaggio vogliano farci credere. Accanto alla ricerca di senso e alla scoperta autentica, viaggiamo anche per paura di essere esclusi, per accumulare esperienze da esibire, per non sentirci rimasti indietro rispetto a un immaginario collettivo che ha trasformato il viaggio in un imperativo sociale. Il movimento contemporaneo porta con sé stratificazioni inedite: è scoperta e performance, libertà e ansia, autenticità e costruzione identitaria mediata dallo sguardo altrui.

Se guardiamo ai numeri, il quadro è chiaro: secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo, nel 2024 gli arrivi turistici internazionali hanno superato 1,4 miliardi, raggiungendo livelli pre-pandemici e confermando il viaggio come uno dei fenomeni sociali più pervasivi del nostro tempo. Eppure i dati, per quanto eloquenti, raccontano solo una parte della storia. Quello che le statistiche non mostrano è la molteplicità spesso contraddittoria delle motivazioni: si viaggia per conoscere, ma anche per dimostrare di aver conosciuto. Si parte per rallentare, ma anche per accumulare. Si cerca l’autenticità, ma si costruisce una narrazione accuratamente editata della propria esperienza. Non si tratta di cinismo, ma di riconoscere che il viaggio contemporaneo è attraversato da tensioni irrisolte tra desiderio individuale e pressione sociale, tra ricerca interiore e competizione simbolica.

L’economia dell’esperienza e l’ansia del vissuto

Viviamo nell’epoca di quello che i sociologi chiamano “capitalismo esperienziale”: non basta più possedere oggetti, bisogna collezionare esperienze. Il viaggio è diventato la forma più ambita di questo nuovo capitale simbolico, una moneta con cui si acquista prestigio sociale e si costruisce un’identità riconoscibile. C’è un’ansia diffusa, particolarmente evidente tra i millennials e la generazione Z, legata al timore di non aver vissuto abbastanza, di lasciarsi sfuggire occasioni irripetibili, di invecchiare senza una biografia degna di essere raccontata. Questa pressione trasforma il viaggio da scelta libera a obbligo implicito: bisogna aver visto certi luoghi, aver fatto certe esperienze, aver attraversato certi riti di passaggio geografici per sentirsi parte di una comunità generazionale.

L’espressione FOMO, fear of missing out, descrive perfettamente questa condizione: la paura ossessiva di essere tagliati fuori, di perdere un’esperienza che tutti gli altri stanno facendo. I social media hanno amplificato questa dinamica fino a renderla strutturale. Lo scroll quotidiano attraverso Instagram o TikTok produce un flusso ininterrotto di vite altrui apparentemente più ricche, più avventurose, più complete della propria. Ogni tramonto su Santorini, ogni mercato colorato del Sudest asiatico, ogni escursione in Patagonia diventa un parametro di confronto implicito. Non si viaggia solo per sé, ma anche per colmare un divario percepito tra la propria esistenza e quella degli altri. Questa non è necessariamente superficialità: è il modo in cui la socialità contemporanea ha ridefinito il valore dell’esperienza, trasformandola in qualcosa che esiste pienamente solo quando viene validata dallo sguardo collettivo.

Il viaggio come performance identitaria

C’è una verità scomoda di cui si parla poco: molti viaggi sono progettati fin dall’inizio per essere raccontati, non solo vissuti. La scelta della destinazione, la selezione delle attività, persino il modo di vestirsi e muoversi sono calibrati sulla loro potenziale traducibilità in narrazione condivisibile. Questo non invalida l’esperienza, ma la modifica in modo profondo. Si viaggia con una doppia consapevolezza: quella di chi vive il momento e quella di chi già immagina come quel momento verrà ricordato, fotografato, raccontato. Il viaggio diventa così una forma di performance identitaria, un modo per dire al mondo chi siamo o chi vogliamo apparire. La scelta di un ostello invece di un hotel, di una destinazione fuori rotta invece di una meta turistica, di un’esperienza locale invece di un tour organizzato: ogni decisione è anche un messaggio su di sé.

Questa dimensione performativa non è necessariamente negativa, ma va riconosciuta. Il problema nasce quando la performance sostituisce completamente l’esperienza, quando si viaggia solo per poter dire di averlo fatto, quando la destinazione diventa irrilevante rispetto alla sua funzione di sfondo per una costruzione narrativa. È il paradosso del turista che attraversa un museo guardando lo schermo del telefono, che vive un tramonto attraverso la lente della fotocamera, che mangia un piatto tipico pensando già alla caption da associargli. Non si tratta di demonizzare la condivisione, che è parte legittima dell’esperienza umana, ma di interrogarsi su cosa resta quando si sottrae il pubblico. Se un viaggio non fosse raccontabile, se non producesse alcuna traccia condivisibile, avrebbe ancora senso partire? Per molti la risposta, onestamente, sarebbe incerta.

La geografia delle disuguaglianze nascoste

Mentre celebriamo retoricamente il viaggio come diritto universale, raramente ci soffermiamo su quanto sia profondamente disuguale l’accesso a questa libertà. Non tutti possono permettersi di viaggiare, e tra chi può farlo esistono gerarchie invisibili ma concrete. C’è chi viaggia in business class e chi con compagnie low-cost dopo mesi di risparmi. C’è chi prenota hotel di lusso e chi dorme in camere condivise. C’è chi accumula settimane di ferie retribuite e chi può permettersi solo weekend fugaci. E soprattutto, c’è chi possiede un passaporto che apre porte e chi possiede un documento che le chiude. Secondo il Henley Passport Index, la differenza tra i passaporti più potenti e quelli più deboli può significare l’accesso a quasi duecento paesi in più senza visto.

Eppure queste disuguaglianze restano spesso nascoste nella narrazione pubblica del viaggio, che preferisce enfatizzare l’universalità dell’esperienza piuttosto che riconoscerne i privilegi. Viaggiare è diventato un marcatore di classe sociale mascherato da conquista personale: si attribuisce al merito individuale, alla capacità di risparmiare o di organizzarsi, quello che in realtà dipende in larga parte da condizioni strutturali di partenza. Questa rimozione genera un cortocircuito: chi viaggia molto tende a sottovalutare il privilegio che rappresenta, mentre chi non può permetterselo interiorizza questa impossibilità come mancanza personale. Il risultato è un’ansia diffusa, la sensazione di non essere all’altezza di uno standard che in realtà non tutti possono raggiungere, indipendentemente dalla volontà o dall’impegno.

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Tra ricerca autentica e turismo di massa

Esiste anche, ed è importante riconoscerlo, un desiderio autentico di rallentare, di sottrarsi alla velocità asfissiante della vita quotidiana, di cercare un contatto più profondo con luoghi e persone. Il turismo lento, i cammini, le residenze creative, i viaggi in bicicletta: sono fenomeni reali e in crescita, espressione di un bisogno legittimo di tempo denso e presente. Secondo un’indagine di Booking.com, oltre il 60% dei viaggiatori nel 2024 ha dichiarato di preferire esperienze autentiche e sostenibili rispetto a pacchetti turistici tradizionali. Ma anche qui la realtà è più sfumata di quanto sembri. Spesso l’autenticità cercata è essa stessa una costruzione, un prodotto turistico confezionato per rispondere alla domanda di “vero” da parte di viaggiatori stanchi del turismo di massa. Si cerca il borgo autentico che però deve avere wifi e ristoranti di qualità, l’esperienza locale che però non deve essere troppo scomoda o imprevedibile.

Questa tensione attraversa tutto il viaggio contemporaneo: vogliamo essere viaggiatori, non turisti, ma continuiamo ad aver bisogno delle infrastrutture e delle sicurezze che il turismo organizzato garantisce. Vogliamo la spontaneità, ma prenotiamo tutto in anticipo su piattaforme digitali. Vogliamo il contatto con la popolazione locale, ma spesso ci muoviamo in bolle linguistiche e culturali che ci proteggono dall’estraneità vera. Non c’è ipocrisia in questo, ma piuttosto la difficoltà di conciliare desideri contraddittori: il bisogno di sicurezza e quello di avventura, il desiderio di controllo e quello di abbandono, la ricerca dell’altro e la paura dell’eccessiva alterità. Il viaggio contemporaneo è questo campo di tensioni, più che una sintesi riuscita tra elementi opposti.

Il ritorno e la domanda inevitabile

Ogni viaggio, per quanto lungo o trasformativo, ha un punto di arrivo che spesso coincide con il punto di partenza. Si torna a casa, e lì emerge la domanda più difficile: cosa resta? Quando le fotografie sono archiviate, quando le storie sono state raccontate agli amici, quando il profilo social è stato aggiornato, cosa rimane dell’esperienza? Per alcuni, il viaggio continua a sedimentare nel tempo, modificando lo sguardo sul quotidiano, aprendo possibilità nuove, generando domande che prima non esistevano. Per altri, il viaggio si consuma rapidamente, diventa un ricordo sconnesso dalla vita ordinaria, qualcosa che è accaduto ma che non ha lasciato tracce profonde. La differenza non sta necessariamente nella qualità del viaggio, ma nel modo in cui lo si attraversa e nel tempo che ci si concede per metabolizzarlo.

C’è poi una dimensione più inquietante del ritorno: la sensazione che nulla sia cambiato, che il movimento geografico non abbia prodotto alcun movimento interiore, che si sia viaggiato per accumulare esperienze senza davvero viverle. È il rischio del viaggiatore seriale, di chi parte continuamente ma non arriva mai davvero da nessuna parte, perché ogni destinazione è già sostituita dalla successiva nella pianificazione mentale. In questa modalità, il viaggio diventa una fuga non verso qualcosa, ma da qualcosa: dalla noia, dalla routine, da se stessi. Non c’è giudizio morale in questo, ma è utile riconoscere che non tutti i viaggi sono trasformativi, che non ogni partenza è una forma di conoscenza, che a volte si viaggia semplicemente per riempire un vuoto che il viaggio stesso non può colmare. E forse è proprio questa ammissione, questa capacità di guardare le proprie motivazioni senza retorica, il primo passo verso un viaggio davvero autentico: quello che inizia dal riconoscimento onesto di perché si parte, con tutte le contraddizioni che questo comporta.

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